Nicola Morra;in una nota: “Come la Sicilia – senza lavoro -può uscire dalla Mafia”

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Pochi forse conoscono Nicola Morra. Chi è?  E’ presidente della Commissione Antimafia.Ma non è tutto. Per le sue critiche non ha avuto una casella di potere attivo al governo, il suo parlare gli ha portato un rinvio a giudizio per diffamazione aggravata contro il primo cittadino di Cosenza. Una medaglia al valore in realtà . Nato a Genova, Morra si trasferisce al Sud molto presto: si laurea all’Università La Sapienza di Roma, poi frequenta un corso di perfezionamento in bioetica a Bari. E mette radici in Calabria, dove insegna per quasi vent’anni. Istruzione e legalità diventano le sue ossessioni. : prende posizioni coraggiose e viene annoverato tra gli ortodossi insieme a Roberto Fico, oggi presidente del Senato , Luigi Gallo, Giuseppe Brescia, ma quasi mai tra gli aperti dissidenti del Movimento 5S

..”Nel nostro Paese – informa Morra -sono tante, troppe, ancora oggi le forme di discriminazione salariale e contrattuale. Esse riguardano ampie fasce della popolazione più debole: donne, giovani e residenti nelle aree più povere, che faticano a trovare un inserimento lavorativo regolare e dignitoso.

In alcune regioni lo sfruttamento lavorativo si intreccia alla gestione criminale del territorio. Il caporalato ne è un esempio lampante.

La storia ci insegna che questa situazione ha radici profonde e antiche che la Politica non è riuscita, o non ha voluto, estirpare perché spesso connivente.

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Nella Sicilia del secondo dopoguerra a seguito dei decreti Gullo (1944), che prevedeva la concessione di terreni privati abbandonati o incolti a cooperative di braccianti, il movimento contadino rivendicò il diritto di lavorare la terra occupando i latifondi abbandonati.

La lotta dei braccianti siciliani fu duramente repressa dai proprietari terrieri grazie allo scellerato patto con la mafia. L’uso di coinvolgere i capimafia nelle amministrazioni locali per controllare il territorio nell’isola era stato già avviato dal governo militare alleato nei mesi successivi allo sbarco. La mafia era vista come un efficace strumento per mantenere l’ordine.

L’alleanza tra mafiosi e agrari divenne strutturale per reprimere le rivendicazioni dei braccianti: i proprietari terrieri scelsero come campieri e gestori dei feudi i mafiosi del luogo che garantivano con la violenza i rapporti di forza in essere. Le rivendicazioni del movimento contadino dunque erano una minaccia diretta non solo al potere e agli interessi dei grandi proprietari terrieri ma anche dei mafiosi che ne erano gli amministratori.

Per questo i dirigenti politici e sindacali del movimento contadino furono le vittime prescelte: 52 dal 1944 al 1960. A queste azioni si aggiungono gli attentati alle sedi, ai raccolti agricoli e ai comizi che coinvolsero vittime accidentali e numerosi feriti. Oltre alle vittime di mafia, tante furono quelle delle forze dell’ordine durante le manifestazioni e le contestazioni più dure.

Inoltre tra mafiosi e alcuni esponenti delle forze dell’ordine si era creato un patto di reciproca convivenza e difesa contro banditi e braccianti. Nella Sicilia di quegli anni la violenza era tale da configurarsi come una vera e propria guerra civile.

Sugli assassinii dei dirigenti politici e sindacali il depistaggio e lo sviamento delle indagini portarono a pochissime condanne. Nella maggior parte dei casi le vittime venivano screditate e il movente politico escluso in favore di motivazioni passionali causate dal passato privato della vittima.

È quanto accadde anche nel caso degli assassinii di Giuseppe Maniaci e Placido Rizzotto, il primo iscritto al Partito Comunista e segretario della Federterra locale, il secondo socialista, segretario della Camera del Lavoro di Corleone.

Rizzotto era una figura di spicco del movimento contadino e il suo assassinio ebbe una enorme risonanza a livello nazionale. Aveva combattuto al fronte in Carnia e si era unito ai partigiani nella guerra di liberazione. Tornato in Sicilia era diventato presidente dei combattenti per l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) prima, e sindacalista poi e in questo ruolo aveva guidato l’occupazione delle terre incolte a favore delle cooperative contadine. Fu ucciso a Corleone il 10 marzo del 1948 dal mafioso Luciano Liggio affiliato del capomafia Michele Navarra. Attirato in un agguato da un collega sindacalista segretamente affiliato a Navarra, Rizzotto fu picchiato fino alla morte e poi buttato in una foiba. Le indagini furono condotte da un allora giovane capitano dei carabinieri Carlo Alberto Della Chiesa che individuò e arrestò gli assassini, poi assolti al processo per insufficienza di prove.

Il corpo di Rizzotto fu ritrovato solo nel 2009 e fu riconosciuto nel 2012 a seguito del confronto del DNA con quello del padre, riesumato a questo scopo. Lo stesso anno gli furono dedicati i funerali di Stato. Lo scorso 10 marzo alla memoria di Placido Rizzotto è stata dedicata una strada a Palermo.

Placido Rizzotto incarna un simbolo. La sua storia racconta il coraggio di opporsi a potenti e criminali in difesa dei deboli e del loro diritto al lavoro. Lavoro come strumento di autonomia, dignità, libertà e giustizia sociale.

Per questo a ridosso del 25 aprile e del 1 maggio sono felice di ricordarlo e di farlo da Presidente della Commissione Antimafia ed esponente di una forza politica che ha finalmente portato in Parlamento una legge sul salario minimo.

Nicola Morra