IL PIANTO E LO STRAZIO SENZA FINE DEI FAMILIARI CHE NON POSSONO DARE L’ULTIMO SALUTO

MORIRE SENZA IL CONFORTO DEI FAMILIARI E DEI RELIGIOSI

Riceviamo e pubblichiamo volentieri un servizio giornalistico pubblicato su “Interris.it”  che , attraverso la testimonianza del sacerdote mette in chiara luce il dramma più grande per gli ammalati di coronavirus:  morire senza avere la possibilità di una parola, un saluto ai propri cari. Ricorderemo che a Bergamo il Vescovo Breschi ha riferito che, in assenza dei religiosi, sacerdoti, i battezzati possono benedire i morenti e le salme   ” Un battezzato può benedire,afferma il Vescovo. Un tempo era il padre a benedire i figli al momento dell’addio. Ora possono farlo i figli e, nelle terapie intensive,anche i medici e gli infermieri. Dico loro: ovviamente non vi imponiamo nulla; ma se intuite che una persona ha questa sensibilità, voi stessi fatevi portatori di un segno, di una benedizione, di una piccola preghiera».

Risultato immagini per IMMAGINE DEI REPARTI OSPEDALIERI

Il martirio della solitudine

Foto  “Interris.it”,Quootidiano diretto da Padre A.Buonaiuto

“Padre, mi dia una benedizione la prego e la supplico, se può salutarmi i miei due figli dicendo quanto li ho amati e che avrei tanto desiderato abbracciarli per un’ultima volta…padre, perché il Signore ha permesso tutto ciò…io sono sempre stato un suo servitore, anche se indegno, non l’ho mai abbandonato, e ora Lui, abbandona me! Pensavo di poter campare qualche altro anno, d’altronde 68 anni non sono poi così tanti. Qui ci chiamano tutti “il vecchio”, e con un numeretto…io sarei il “vecchio 87”. Ma sa padre, io non mi sono mai sentito un vecchio…non ce la faccio più a parlare”. E così in lacrime il caro Giorgio ha speso le sue ultime giornate attaccato ad un respiratore e senza poter rivedere i propri cari.

Il pianto e lo strazio dei familiari in queste giornate apocalittiche è incontenibile e solo una piccola percentuale arriva nelle case dove, se da una parte si parla del covid-19 (spesso anche a sproposito) dall’altra si limitano le immagini e le dichiarazioni più drammatiche e scioccanti. Alcuni dicono, per non fomentare il panico. Mah! Eppure la realtà e quindi la verità non le si può nascondere. Non è possibile assistere alla tragedia di un’Italia schizofrenica che piange i propri figli e di un’altra Italia che ancheggia dai balconi o, peggio, finge che il pericolo non la riguardi azzardando trasferimenti e comportamenti che seminano il contagio su tutto il territorio nazionale.

Il bisogno, anche legittimo, di leggerezza non può giustificare alcuna forma di negazionismo o di ostinazione nel voler sdrammatizzare a tutti i costi, offendendo così la memoria di migliaia di defunti e la sofferenza di decine di migliaia di ammalati. E’ stata superata la quota sbalorditiva di 50.418 positivi, a detta di tutti i virologi punta di un icesberg almeno cinque volte superiore per dimensione. La gente è stanca anche dei tanti, troppi giochi di parole e paroline (morti per covid, morti con covid ) messi in campo per dissimulare ciò che non si può nascondere: l’ecatombe in corso.

Penso che tanta gente, quella che fortunatamente sta bene, non si rende ancora conto dell’indescrivibile dolore che i familiari delle vittime, ammalate o già uccise dal Covid, stanno subendo. E’ contro natura morire senza i propri cari intorno. Questa emergenza nega persino “l’onore delle armi” che le altre patologie permette ai moribondi: passare a miglior vita senza l’onta ulteriore della solitudine finale.

Tante sono le pressioni e le difficoltà che tutti gli operatori sanitari in prima linea stanno subendo: “Padre, noi non sappiamo che farcene dell’ammirazione – mi ha detto un medico infettivologo – noi abbiamo bisogno delle attrezzature per poter lavorare, invece, al momento, le abbiamo razionate e siamo sempre sull’orlo del collasso di un sistema impreparato ad una pandemia!” E così una farmacista: “Don, la mascherina me la sono fatta con il tessuto rimediato da casa perché qui non arrivano e tanta gente si dispera e va nel panico, non faccio altro che rispondere negativamente alle richieste di mascherine e amuchina”.

Che mortificazione, un Paese del G7 che non ha da dare ai propri figli il necessario per tutelarsi. E allora ho chiesto ad un medico: “Perché non fanno i tamponi?”. La risposta è stata sconcertante: “L’ho chiesto anche per me e il collega mi ha mandato sul telefonino una faccina con le lacrime”. E ancora, “Ad una cara famiglia che seguo da tanti anni ho detto di non portare la mamma anziana in ospedale… lasciatela morire a casa, almeno non dovrà subire il martirio della solitudine”.

Ecco, questo “martirio della solitudine” mi ferisce e amareggia profondamente. La gente si sente più sola che isolata. Le persone cercano affetto e, nei momenti più difficili, l’amore è veramente tutto. Se viene a mancare si sta già condannando a morte qualcuno.

I cappellani mi dicono: “don, qui è un fronte di guerra…gli infermieri sono esasperati e anche impauriti, la gente piange ovunque e fa male sentire il grido al telefonino dei figli, dei nipoti che danno l’ultimo saluto ai propri nonni, padri e madri, magari ascoltando solo la fatica del respiro”. Mai come in queste settimane i medici mi hanno chiesto benedizioni e preghiere e mai ho visto il personale sanitario così provato e disperato.

Tanti comuni del nord non vengono neanche citati ma il dolore dilaga ovunque e il terrore affiora negli occhi di tanti. La restante parte della popolazione risparmiata finora dal coronavirus non può fingere di ignorare questo stato di lutto generalizzato e di non ascoltare il grido di aiuto dei più fragili.

Dice il Qoelet: “c’è un tempo per ogni cosa”. Vorremmo che anche i media dimostrassero toni e modalità di espressione più rispettosi e contenuti: questo non è il momento del chiacchiericcio ma del pianto per i nostri morti e dell’impegno condiviso per fermare questo mostro invisibile. Non serve il baccano anzi è un insulto alla tragedia collettiva che non sappiamo ancora quali dimensioni assumerà e quanto durerà. C’è bisogno, invece, di silenzio, rispetto, preghiera, consolazione. Abbassiamo tutti i toni, se non per buona creanza almeno per un sussulto di decenza.

Un ragazzo di quattordici anni mi ha detto in lacrime: “Don, io non posso più vedere uno schermo, non ci riesco più!” Perché Andrea, che ti succede? “La gente canta e danza, ho visto anche delle suore ballare, ma a me da quando due settimane fa è morto papà è finita la voglia di vedere e sentire chiunque. Invece quella gente mi fa inorridire: come possono scherzare in mezzo a un simile orrore? Questa non è solidarietà, questa è disumanità…ti prego don, almeno dillo te”.

Nel mio piccolo provo a dare voce alle sofferenze odierne pur sapendo che la zizzania continua incessantemente a crescere accanto al grano buono. Lo sappiamo, mentre muoiono migliaia di innocenti c’è chi litiga per questioni economiche e di potere. L’arrivo degli sciacalli è purtroppo inevitabile come quello dei corvi che già puntano la preda. Le polemiche sterili, le cattiverie sconcertanti, i formalismi criminali ( ci si preoccupa ora della privacy, mentre da un decennio i social saccheggiano i nostri dati personali e si allungano i tempi per colpa della burocrazia in assenza di dispositivi medici salva-vita ) possono avvilirci, di certo non aiutano. Però chi ancora ha un po’ di valori e magari anche un briciolo di fede può contribuire a rendere anche questo momento un tempo di crescita. Me l’ha insegnato quel sacerdote che l’altro giorno ha detto: “il mio respiratore lasciatelo a chi è più giovane di me, e ha salutato questo mondo”. E’ lo stesso martirio della misericordia che settanta anni fa, in un lager, spinse San Massimiliano Kolbe a farsi giustiziare al posto di un giovane padre di famiglia. Si ricordino dei sacerdoti morti a decine in queste settimane tra le corsie lombarde coloro che ignobilmente riescono solo ad accusare la Chiesa di restare chiusa nei suoi palazzi.     don A.Buonaiuto,sacerdote, direttore di “Interris.it”