Messina, indagine “LOCK-DRUGS” – 13 misure cautelari per spaccio di marijuana e cocaina

Guida Sotto l'effetto di Sostanze Stupefacenti | Studio Legale Chiarini

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Messina – Falcone (ME),
 Una Ordinanza di applicazione di misure cautelari è stata notificata dai Carabinieri di P.G. (Messina) nei confronti di tredici persone, ritenute responsabili, a vario titolo, del reato di spaccio di sostanze stupefacenti di tipo marijuana e cocaina, emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Patti (ME), su richiesta della Procura della Repubblica di Patti guidata dal Procuratore Capo.
Si tratta di tredici misure cautelari di cui: una degli arresti domiciliari, sei di obbligo di dimora nei rispettivi comuni di residenza con prescrizioni per i destinatari di non allontanarsi dalle loro abitazioni dalle ore 21:00 alle ore 07:00 di tutti i giorni, e sei di obbligo di presentazioni alla Polizia Giudiziaria.
L’attività di indagine è nata da alcune segnalazioni, ricevute dai Carabinieri della Stazione di Falcone (ME), relative a possibili attività di spaccio di sostanze stupefacenti, specie tra giovanissimi, principalmente ad opera di due soggetti di Falcone già noti ai militari. I primi riscontri, operati per circostanziare quanto segnalato, hanno consentito di effettuare il rinvenimento di sostanze stupefacenti nonché l’acquisizione di messaggistica avvenuta tramite i moderni sistemi di comunicazione dei social network, ritenuta meno vulnerabile sotto il profilo del monitoraggio investigativo. In tale fase i Carabinieri hanno anche acquisito le denunce della madre di un consumatore di sostanze stupefacenti che si era appropriato di beni di famiglia per venderli ed impiegarne il ricavato nell’acquisto di droga.
I primi riscontri investigativi hanno consentito al sostituto Procuratore della Repubblica di Patti, di delegare ai Carabinieri della Stazione di Falcone ulteriori indagini anche attraverso lo sviluppo di attività tecniche di intercettazione di comunicazioni telefoniche e di videosorveglianza mediante l’istallazione di telecamere all’esterno dell’abitazione di uno degli indagati, assiduamente frequentata da consumatori di droghe. 
L’esito delle investigazioni condotte con l’impiego di intercettazioni telefoniche e con l’espletamento dei tradizionali servizi di Polizia Giudiziaria tra cui osservazioni, controlli e pedinamenti, ha portato all’emersione di una più vasta attività di spaccio di marijuana e cocaina che ha consentito di allargare l’ambito delle indagini, sia soggettivamente che geograficamente, portando alla luce l’operatività di altri soggetti attivi nell’ambito territoriale compreso tra Falcone e Barcellona P.G., passando per Terme Vigliatore e Mazzarrà S. Andrea.
I partecipanti al gruppo criminale investigato hanno palesato, benché alcuni di giovane età, grande esperienza nel settore dello spaccio delle droghe, adottando accorgimenti per eludere la Polizia Giudiziaria, quasi mai sbilanciandosi telefonicamente e comunicando sistematicamente mediante uso di linguaggio codificato e tramite canali social, in particolare WhatsApp e Instagram, indicando le droghe contrattate con nomi convenzionali del tipo “Ciccia”, “Bomba”, “Caffè”, “Basilico”, “Medicina”, “Schedina”, “Computer verde”, “Sigaretta”.
L’attività si spaccio di stupefacenti non si è interrotta neppure durante il periodo di lockdown imposto dall’emergenza epidemiologica della pandemia da covid-19, e l’attivismo nell’attività di vendita al dettaglio dello stupefacente anche in quel periodo di stringenti limitazioni ha dato lo spunto per il nome dell’operazione. Ma la pandemia, è stata anche un’opportunità di guadagno per gli spacciatori infatti le restrizioni hanno reso più difficoltosa la circolazione della droga sul mercato e l’effetto è stato quello di fare lievitare i prezzi al dettaglio della sostanza stupefacente, raddoppiando il costo di un grammo di marijuana, pagato anche 20,00 euro dai consumatori al grammo. 

La Finanza sequestra un milione di vino contraffatto con “false attestazioni di vendemmia”- Denunciati 8 responsabili

 

 

 

 

 Sequestrato circa un milione di litri di vino comune venduto con etichette riportanti false indicazioni di origini protette IGP, dal Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Foggia che , su indicazione dell’Ispettorato Controllo Qualità e Repressione Frodi di Bari, ha denunciato 8 responsabili alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia.

In particolare, nell’ambito dell’intensificazione delle attività a contrasto della contraffazione in agricoltura, a tutela del consumatore e del made in Italy, finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria di Foggia e funzionari dell’Ispettorato Controllo Qualità Repressione Frodi (ICQRF) del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali hanno condotto una mirata azione investigativa nel settore vitivinicolo, individuando un’azienda vinicola della Provincia di Foggia che risultava aver commercializzato oltre 1,5 milioni di litri di vino con marcatura IGP falsa. Primitivo, Chardonnay, Pinot grigio, Falanghina, Merlot, le qualità di vino illegalmente immesse sul mercato.

Le risultanze delle banche dati in uso all’ICQRF e alla Guardia di Finanza, supportate da aerofotogrammetrie specifiche dei terreni interessati dalle “presunte” coltivazioni di uve a indicazione geografica tipica o protetta, hanno permesso di ricostruire e rilevare gravi anomalie tra le tipologie di uva effettivamente prodotte e quelle formalmente conferite in azienda vinicola, nonché in ordine alla reale capacità produttiva di uva dei terreni coltivati messi sotto la lente dagli investigatori.

Sono state eseguite perquisizioni mirate per verificare le discrasie ipotizzate, che si sono concluse con il riscontro dell’illecita condotta tenuta dall’azienda vinicola oggetto di controllo e da n. 6 produttori di uve che hanno rilasciato false “attestazioni di vendemmia” in ordine al conferimento di uve IGP.

Al vaglio della Procura della Repubblica di Foggia, che coordina le indagini, è stata rimessa dagli organi inquirenti anche la posizione di un Centro Assistenza Agricola (CAA) della Provincia di Foggia che ha predisposto ed inviato telematicamente alle competenti Autorità artefatte dichiarazioni di produzione relative alla campagna vitivinicola 2020.

L’attività investigativa si è conclusa con:il sequestro di 917.205 litri di mosti e vini IGP Puglia con indicazione di vitigni e vini varietali falsamente rivendicati; la contestazione, per avvenuta immissione in commercio, di “consumato in frode” di 602.465 litri di analoghi mosti e vini IGP Puglia con indicazione di vitigni e vini varietali, falsamente rivendicati;la denuncia di 8 soggetti alla locale A.G. quali responsabili, a vario titolo, dei reati di frode in commercio, contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari, falsità in registri e notificazioni e in documenti informatici.

Scoperti dalle Fiamme gialle 9 agenti della Polizia Locale a Reggio Calabria autori di reati per induzione indebita a dare o promettere utilità, falso ideologico e violenza privata

REGGIO CALABRIA

I militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Reggio Calabria hanno eseguito, in data odierna, un’ordinanza di applicazione della misura cautelare personale coercitiva degli arresti domiciliari nei confronti di 2 agenti della Polizia Locale di Reggio Calabria e della misura cautelare personale interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio rivestito per la durata di dodici mesi nei confronti di altri 7 agenti, nonché sottoposto alla misura cautelare reale del sequestro preventivo una depositeria giudiziaria autorizzata, iscritta all’Albo Prefettizio, per i reati di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, falso ideologico e violenza privata.

Le investigazioni, eseguite dalla Compagnia Reggio Calabria e coordinate dalla locale Procura della Repubblica, diretta dal Procuratore Dott. Giovanni Bombardieri, sono scaturite dalla denuncia presentata ad ottobre 2020 da un cittadino extra–comunitario, venditore ambulante munito di regolare licenza, che aveva rappresentato di aver subìto un furto della merce che esponeva in vendita, da parte di due soggetti ignoti, poi risultati essere due agenti di Polizia Locale (A.M. – cl. ’78 e C.G. – cl.’75), odierni arrestati, senza la redazione e il rilascio di alcun verbale di sequestro amministrativo o di contestazione.

Le attività investigative preliminari hanno consentito di appurare, anche tramite l’acquisizione e l’analisi di video-registrazioni, la veridicità di quanto denunciato dall’ambulante: lo stesso, infatti, era stato, a tutti gli effetti, vittima di un’ingiustificata appropriazione della merce esposta da parte di due pubblici ufficiali, in abuso della loro qualità, nonostante l’esibizione della licenza autorizzatoria, la quale, visionata dagli indagati, veniva lanciata in direzione dell’extra–comunitario, senza la restituzione della merce indebitamente appresa.

Da un successivo sviluppo dei primi input investigativi, sotto il coordinamento del Procuratore Aggiunto Dott. Gerardo Dominijanni e sotto la direzione del Sostituto Procuratore della Repubblica Dott.ssa Alessia Giorgianni, le fiamme gialle reggine hanno rilevato come diversi altri appartenenti alla Polizia Locale del capoluogo reggino (F.D. – cl. ’63, C.V. – cl. ’71, S.C. – cl. 67, C.M. – cl. ’78, F.U.F. – cl. ’71, M.G. – cl. ’71 e C.P. – cl. ’77) sottraessero sistematicamente, nell’ambito degli ordinari servizi finalizzati al contrasto dell’abusivismo commerciale, la merce esposta per la vendita da ambulanti di origini extra-comunitarie, senza provvedere alla redazione e al rilascio di verbali di sequestro amministrativo o di altri atti, ma procedendo alla successiva pubblicazione, sull’Albo Pretorio del Comune, di verbali di rinvenimento di merce redatti nei confronti di soggetti ignoti.

E’ stato possibile, altresì, constatare come due poliziotti locali reggini, sottoposti ai domiciliari (A.M. – cl. ’78 e C.G. – cl. ’75) avessero messo in piedi un sodalizio finalizzato alla ricerca di veicoli da rottamare, acquisire o cannibalizzare, unitamente a tre soggetti (S.B. – cl. ’74, I.A.D. – cl. ’94 e S.D.F. – cl. ’75) a cui sono riconducibili due imprese operanti nel settore del soccorso e della rimozione di veicoli, una delle quali è una depositeria giudiziaria autorizzata – oggi sottoposta a sequestro – con l’intento di trarne dei guadagni illeciti.

In particolare, i due pubblici ufficiali, trovate sulla pubblica via autovetture sprovviste della necessaria copertura assicurativa, anziché procedere alla contestazione delle violazioni del caso o alle operazioni di sequestro amministrativo, inducevano i proprietari dei veicoli ad affidare gli automezzi in questione ai rappresentanti di una delle due imprese, a turno, dietro la minaccia dell’irrogazione di salate sanzioni pecuniarie e a fronte della mancata contestazione delle violazioni. Questi ultimi, in accordo con i due agenti di Polizia Locale, dietro il pagamento di un corrispettivo di denaro in contanti, procedevano, successivamente, alle operazioni di rimozione e di rottamazione. Da tali modalità operative, indebitamente, traevano vantaggio economico le due imprese: l’una, autorizzata, i cui gestori operavano nelle vesti di incaricati di pubblico servizio, praticando prezzi di gran lunga superiori a quelli previsti dalla convenzione con il Comune, e omettendo, integralmente, di versare una percentuale degli indebiti introiti a titolo di canone concessorio (non esistendo alcuna verbalizzazione delle contravvenzioni rilevate dai pubblici ufficiali), e l’altra, in totale assenza di qualsivoglia legittimazione a intervenire in rimozione di veicoli per conto del Comune di Reggio Calabria, riconducibile a un soggetto definitivamente condannato per associazione mafiosa.

In altri casi si è persino accertato come i due agenti in argomento sponsorizzassero le imprese operanti coinvolte nel disegno criminoso, prospettando vantaggi e convenienze di vario genere anche quando i contravventori di turno riferivano di conoscere già dei conducenti di carroattrezzi di propria fiducia. Il risultato di tali condotte, grazie anche al potere deterrente delle ingenti sanzioni amministrative prospettate, era il maturato convincimento dei cittadini ad affidarsi alle imprese facenti capo agli indagati. Un espediente a cui facevano ricorso i due agenti di Polizia Locale era quello di preavvisare i referenti delle imprese di rimozione di veicoli, indicando loro, preventivamente, il luogo delle operazioni, in modo che al momento della loro attivazione, gli stessi potessero repentinamente giungervi.

Tale meccanismo, infatti, costringeva i contravventori di turno a versare, in ogni caso, la somma prevista per il “diritto di chiamata”, la quale è dovuta anche se la rimozione non viene eseguita purché il carroattrezzi giunga entro venti minuti dalla chiamata. In diverse occasioni, gli indagati discutevano del valore di mercato di determinate autovetture, individuate nel corso dei loro “interventi”: i pubblici ufficiali, addirittura, richiedevano ai referenti delle imprese di rimozione di veicoli se i mezzi fossero di loro gradimento, in modo da decidere, in base alla risposta ricevuta, se procedere effettivamente al sequestro amministrativo o meno; di conseguenza, laddove non vi fosse interesse, si procedeva solo in un secondo momento con le obbligatorie verbalizzazioni del caso.

L’interesse in questione è risultato talvolta essere circoscritto a singole componenti degli autoveicoli, alimentando un vero e proprio business sui pezzi di ricambio: alcuni veicoli, difatti, sono stati concretamente cannibalizzati, con asportazione, presso officine “di fiducia” degli indagati, di pezzi da applicare ad autovetture loro o di amici. Laddove, invece, i due agenti della Polizia Locale si rendevano conto del fatto che i veicoli sanzionabili fossero riferibili a familiari di loro colleghi, si adoperavano per riferire la circostanza a questi ultimi, così da evitare di procedere con la verbalizzazione. In un caso, uno degli indagati ha invitato espressamente il proprio interlocutore (uno dei titolari di fatto della depositeria giudiziaria autorizzata) a spostare un furgone, cosicché lo stesso non potesse essere visto da un suo superiore, con cui in quel frangente era impattugliato. Il timore dell’indagato era quello che il superiore presente avrebbe proceduto a elevare le contestazioni e operare il sequestro del mezzo.

Alla luce di ciò, il G.I.P. del Tribunale di Reggio Calabria, Dott.ssa Vincenza Bellini, su richiesta della locale Procura della Repubblica, ha emesso un’ordinanza di applicazione della misura cautelare personale coercitiva degli arresti domiciliari nei confronti di 2 agenti di Polizia Locale (A.M. e C.G.) della misura cautelare personale interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio rivestito per la durata di dodici mesi nei confronti di altri 7 agenti (F.D., C.V., S.C., C.M., F.U.F., M.G. e C.P.) e della misura cautelare reale del sequestro preventivo nei confronti di una delle imprese operanti con i pubblici ufficiali indagati. Al provvedimento cautelare in parola è stata data esecuzione, nella mattinata odierna, da parte delle Fiamme gialle reggine, che hanno anche proceduto anche all’effettuazione di perquisizioni presso i luoghi rientranti nella disponibilità degli indagati. 

MAFIA,CLAN TORRETTA IN GINOCCHIO- ARRESTI E CUSTODIE CAUTELARI-LEGAME PALERMO-USA

 

L'analisi di intelligence per il contrasto alle mafie | Osservatorio  Analitico

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Inginocchiato il Clan  di Torretta nel Palermitano. Su delega della Direzione distrettuale antimafia i carabinieri del Comando provinciale di Palermo hanno dato esecuzione a 11 misure cautelari, emesse dal gip, a carico di altrettanti indagati, accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso, detenzione di stupefacenti, favoreggiamento personale e tentata estorsione con l’aggravante del metodo mafioso. Per nove è scattata la custodia cautelare in carcere, uno è finito agli arresti domiciliari mentre per l’undicesimo è scattato l’obbligo di dimora nel comune di residenza.

Le indagini, condotte dal nucleo Investigativo dei carabinieri di Palermo e coordinate da un pool di magistrati diretti dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca, hanno fatto luce sulla struttura e le attività criminali di una storica articolazione di Cosa nostra palermitana, la famiglia mafiosa di Torretta appunto, è  inserita nel mandamento di Passo di Rigano. .

Un piccolo borgo con poco più di 4.000 abitanti nell’hinterland palermitano, da sempre roccaforte mafiosa e punto di collegamento tra Cosa nostra siciliana e l’omologa organizzazione criminale newyorkese, la famiglia mafiosa di Torretta in passato si è distinta, tra l’altro, per il ruolo dei suoi esponenti quali garanti per il rientro in Italia dei malviventi del gruppo  ostracizzata dai corleonesi di Totò Riina al termine della seconda guerra di mafia.

“Afferma il generale Arturo Guarino, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, dopo il blitz.   SI tratta di un’attività investigativa prolungata che ha dimostrato le relazioni tra i mafiosi italiani e quelli degli Stati Uniti, ma anche, ancora una volta, una penetrazione opprimente nel tessuto economico della comunità e un inquinamento delle istituzioni locali”.. “I carabinieri con le indagini cercano di liberare e dare dignità a una comunità che troppe volte e per troppo tempo è stata sotto una pressione di una cappa insopportabile da parte della mafia”

Il controllo delle attività economiche legate soprattutto all’edilizia, all’agricoltura e all’allevamento di bestiame, ma anche il tentativo di infiltrarsi nell’amministrazione comunale per  controllare la politica locale.Nulla sfuggiva al ‘monopolio’ della famiglia mafiosa di Torretta, colpita all’alba dal blitz dei carabinieri ‘CrysARREtal Tower’. Le indagini, spiegano gli investigatori dell’Arma, hanno consentito di “coglierne la capacità di inserirsi forzatamente nel tessuto economico locale con l’imposizione delle sensalerie nelle compravendite e attraverso il diretto intervento nelle dinamiche di compravendita degli animali e dei terreni”.

. E’ emersa anche “la capillare ingerenza” nelle dinamiche relative alle commesse di lavoro pubbliche e private a Torretta e nei limitrofi comuni di Capaci, Isola delle Femmine e Carini, oltre che in alcuni quartieri di Palermo. Ricostruiti anche i tentativi di infiltrarsi, prima del commissariamento avvenuto nell’agosto del 2019 nella locale amministrazione comunale, tuttora commissariata, e di indirizzare le relative decisioni amministrative, di modificare l’esito delle elezioni comunali, fornendo, nel corso delle elezioni amministrative del 2018, supporto ai candidati di schieramenti opposti.

L’asse Torretta-Usa era molto stabile. Tra la famiglia mafiosa del Palermitano e gli esponenti di vertice di Cosa nostra statunitense c’era “un persistente e saldo legame”, capace, da un lato, di “condizionare, attraverso propri emissari, gli assetti criminali torrettesi” e, dall’altro, “essere fonte di tensioni in occasione dell’omicidio del mafioso newyorkese Frank Calì, esponente apicale della famiglia Gambino di New York. L’attività d’indagine ha permesso di ricostruire la missione a Palermo, alla fine del mese di settembre del 2018, di un emissario di Cosa nostra d’Oltreoceano, accolto dai vertici della famiglia mafiosa di Torretta.

Alla fine di settembre del 2018, infatti, un emissario di Cosa nostra d’Oltreoceano arrivò a Palermo, accolto con tutti gli ‘onori’ dai vertici della famiglia mafiosa di Torretta. “La permanenza dell’uomo – spiegano gli investigatori del Comando provinciale dei carabinieri di Palermo – è stata garantita, tra gli altri, dai fratelli Puglisi (due imprenditori edili di Torretta, ndr) che, dividendosi i ruoli, si sono occupati di prenderlo in aeroporto e di garantirne il soggiorno in una lussuosa villa con piscina di Mondello, dove gli è stato fatto dono di alcuni grammi di cocaina in segno di benvenuto”.

Nel periodo trascorso sull’isola, l’emissario dei boss Usa partecipò, il 3 ottobre del 2018, a una riunione con Raffaele Di Maggio, a capo della famiglia mafiosa di Torretta, nell’abitazione di quest’ultimo a Torretta e a un secondo incontro riservato nella zona di Baucina. Lo stretto legame tra il clan e i boss d’oltreoceano è testimoniato da un altro episodio. Nei giorni successivi all’omicidio di Frank Calì, capo della famiglia dei Gambino, avvenuto a Staten Island (New York) la sera del 13 marzo 2019 il figlio di uno degli indagati partì per gli Stati Uniti. Rientrato dal viaggio, riferì “il clima di profonda tensione creatosi sulla sponda americana – dicono ancora gli investigatori dell’Arma -.

Nella famiglia mafiosa di Torretta, storica roccaforte di Cosa nostra, c’era una “costante, sebbene incruenta, conflittualità interna”. E’ quanto emerge dal blitz antimafia ‘Crystal Tower’. Al vertice della famiglia di Torretta, secondo gli investigatori, c’era Raffaele Di Maggio, figlio dello storico boss Giuseppe detto ‘Piddu i Raffaele’ morto nel gennaio 2019, aiutato da Ignazio Antonino Mannino, anche lui con funzioni direttive e organizzative, e da Calogero Badalamenti, affiliato a cui era stata affidata l’area di Bellolampo.

Ma l’attività investigativa ha fatto emergere anche i ruoli di Lorenzo Di Maggio, detto ‘Lorenzino’, scarcerato nell’agosto del 2017 e sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Carini; Calogero Caruso, detto ‘Merendino’, anziano affiliato e già figura di vertice della famiglia mafiosa di Torretta, sotto il quale si andava accreditando il nipote Filippo Gambino; e Calogero Christian Zito, affiliato alla famiglia monitorato in numerosi spostamenti tra la Sicilia e gli Usa.

Operazione “Tonsor”: le Fiamme gialle sgominano organizzazione di usurai

Operazione Tonsor - Sgominata organizzazione di usurai

 

 

Palermo

Su delega della Procura della Repubblica di Palermo, i Finanzieri del locale Comando Provinciale hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di applicazione di misure cautelari emessa dal G.I.P. del Tribunale del capoluogo nei confronti di 5 soggetti, di cui:

  • 1 destinatario di custodia cautelare in carcere: S. C. (cl. 58); 3 sottoposti agli arresti domiciliari: G. C. (cl. 87), M. R. (cl. 60) e G. C. (cl. 72), a vario titolo indagati per associazione a delinquere, esercizio abusivo dell’attività finanziaria, usura, estorsione e autoriciclaggio.

Nei confronti di A. C. (cl. 60) è stata invece applicata la misura del divieto di dimora nel territorio del Comune di Palermo.

Con il medesimo provvedimento il G.I.P. ha disposto il sequestro preventivo di beni nella disponibilità degli indagati per un valore complessivo stimato in circa 500 mila euro.

Le investigazioni condotte dal Nucleo di Polizia Economico – Finanziaria di Palermo nel periodo novembre 2019/dicembre 2020, con l’ausilio di intercettazioni telefoniche e ambientali, appostamenti, pedinamenti, videoriprese, esami dei flussi finanziari, allo stato delle indagini hanno consentito di delineare una consorteria criminale, capeggiata da C. S., che, almeno a partire dal 2016, avrebbe erogato prestiti di denaro con l’applicazione di tassi di interesse anche di tipo usurario nei confronti di una vasta platea di soggetti, orbitanti nell’area palermitana e romana, per un ammontare complessivo pari a circa 150.000 euro.

Parte dei proventi illeciti sarebbero stati poi “autoriciclati” dal figlio Gabriele, attivo “collaboratore” del padre nelle azioni criminali, in un’attività economica nel settore della ristorazione nel pieno della “movida” palermitana.

Gli altri sodali avrebbero operato a vario titolo come intermediari nel meccanismo sotteso alla erogazione dei prestiti di denaro, entrando in contatto con le “vittime”, proponendo “piani di rientro”, nonché veicolando “messaggi” per il rispetto della scadenza delle rate concordate.

La progressione investigativa curata dagli specialisti del G.I.C.O. del Nucleo di Polizia Economico – Finanziaria di Palermo ha consentito di raccogliere elementi circa: il grave stato di bisogno vissuto dai soggetti che hanno chiesto i prestiti di denaro, proseguiti anche nel periodo di c.d. lockdown causato dall’emergenza epidemiologica da Covid-19;

  • l’esistenza di un sistema professionale basato sul rilascio di assegni postdatati utilizzati a garanzia dei prestiti erogati, nonché su dazioni in contanti, prive di qualunque tipo di tracciabilità, con l’obiettivo di “schermare” i passaggi di denaro;
  • l’applicazione di tassi di interesse che sarebbero arrivati fino al 140% annuo, per ottenere i quali gli indagati hanno esercitato anche minacce nei confronti delle vittime.

Parallelamente, i finanzieri hanno valorizzato in chiave patrimoniale gli elementi acquisiti, attraverso l’esame, il confronto e l’incrocio di informazioni estratte dalle diverse banche dati in uso al Corpo – tra cui il noto applicativo “MOLECOLA” –, accertando l’assoluta sproporzione tra i beni nella disponibilità degli indagati e i redditi dichiarati. Sulla base di tali accertamenti, il G.I.P. ha emesso un provvedimento ablativo che ha consentito di sottoporre a sequestro: locali destinati a uso commerciale ove svolge la propria attività un noto ristorante ubicato nel quartiere “Capo” di Palermo; due immobili; un motoveicolo e conti correnti.

 

Operazione “Cocorito” a Catania: sequestro di droga ed associazione a delinquere, dietro le sbarre 13 malfattori

 

Operazione Cocorito - Stroncato cartello della droga

(Foto Stampa G.di Finanza)

 

Nell’ambito di articolate attività d’indagine coordinate dalla Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia, i Finanzieri del Comando Provinciale della Guardia di finanza di Catania, con la collaborazione e il supporto dello SCICO (Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata), hanno dato esecuzione un’ordinanza, emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il locale Tribunale, con cui sono state disposte misure restrittive nei confronti 13 persone, sottoposte a indagine, a vario titolo, per associazione a delinquere e spaccio di sostanze stupefacenti.

Nel dettaglio, l’attività investigativa – svolta dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Catania – ha consentito di porre in luce e disarticolare due consorterie criminali operanti nel capoluogo etneo, dedite alla commercializzazione di elevati quantitativi di sostanze stupefacenti, e di sottoporre a sequestro, in più occasioni, oltre 367 kg di marijuana e cocaina.

In particolare, la prima associazione, promossa da due fratelli colombiani, coadiuvati da altri due cittadini del medesimo paese sudamericano, era dedita al traffico di cocaina. La seconda associazione criminale era a sua volta articolata in due gruppi.

Il primo, costituito da cittadini albanesi, ed è risultato attivo nell’importazione di importanti quantitativi di droga dall’Albania, poi rivenduti a organizzazioni operanti sul territorio siciliano. Il secondo gruppo si riforniva di stupefacente del tipo marijuana dal primo sodalizio, per poi rivenderlo a Catania.

Le investigazioni, condotte dalle unità specializzate antidroga del GICO del Nucleo di PEF della Guardia di finanza di Catania, hanno consentito, nel tempo, di effettuare sei interventi repressivi del traffico di stupefacente. In particolare, gli interventi, operati in provincia di Catania (Belpasso e Misterbianco) e a Messina, hanno consentito di pervenire al sequestro di 365 kg tra marijuana e cocaina, destinate al mercato catanese.

In esito alle complesse investigazioni eseguite dalle Fiamme Gialle etnee, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catania, su richiesta della Finanza, tenuto conto, in particolare: degli ingenti quantitativi di stupefacente movimentati dalle associazioni criminali investigate; della notevole organizzazione e predisposizione di mezzi per importare lo stupefacente, ha disposto un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 13 soggetti, tutti sottoposti a indagine per i reati di associazione a delinquere e spaccio di sostanze stupefacenti.

Inoltre, nel corso degli interventi finalizzati all’esecuzione delle predette misure cautelari, sono stati rinvenuti e sottoposti a sequestro 500 grammi di marijuana e sono tratti in arresto in flagranza di reato, per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, due stretti congiunti di uno dei destinatari dell’ordinanza.

L’attività investigativa si colloca nel più ampio quadro delle attività poste in essere dalla Guardia finanza volte alla repressione della produzione e dello spaccio di sostanze stupefacenti e a tutela, in particolar modo, delle fasce più deboli della popolazione.

Provvedimento di sequestro beni ad ingegnere ANAS “per sproporzione profilo reddituale”

 

 

 

 

Fiamme gialle di Reggio Calabria e del Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata, con il coordinamento della locale Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia, diretta dal Procuratore Capo Dr. Giovanni Bombardieri, hanno dato esecuzione ad un provvedimento di sequestro di beni per un valore complessivo stimato in circa 700.000 euro, nei confronti di un soggetto, già ingegnere funzionario ANAS, indiziato di aver agevolato l’infiltrazione nel settore degli appalti pubblici di cartelli imprenditoriali connotati da contiguità mafiosa, a fronte di profitti e utilità di vario genere ricevuti quale contropartita.

Tale figura era emersa, tra l’altro, nel corso delle operazioni “Cumbertazione” e Waterfront svolte – sotto la direzione ed il coordinamento della locale Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia – dal Nucleo PEF/GICO della Guardia di Finanza di Reggio Calabria e dallo SCICO di Roma.

In tali contesti investigativi, nei confronti del proposto venivano contestati numerosi capi d’imputazione connessi a reati contro la Pubblica Amministrazione, talvolta inseriti in un più ampio contesto associativo, susseguitisi senza soluzione di continuità a partire dal 2012.

Nello specifico, l’indiziato – nella veste, all’epoca dei fatti, di ingegnere funzionario ANAS  – emergeva quale indefettibile tassello strumentale all’infiltrazione nel settore degli appalti pubblici di cartelli imprenditoriali connotati da contiguità mafiosa ed il cui contributo si traduceva in plurime e reiterate condotte corruttive, a fronte delle quali traeva ingenti profitti ed utilità di vario genere.

Sulla scorta delle suddette risultanze, il Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata (G.I.C.O.) del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Reggio Calabria e lo S.C.I.C.O. di Roma, eseguivano su delega della locale D.D.A., con il coordinamento del Procuratore Aggiunto Dr. Calogero Gaetano PACI e del Sost. Proc. Dr. Gianluca GELSO – mirate indagini economico-patrimoniali sul conto, tra l’altro, del predetto soggetto e del suo nucleo familiare.

In tale contesto, valorizzando le funzioni proprie della Guardia di Finanza nella prevenzione e contrasto ad ogni forma di infiltrazione della criminalità nel tessuto economico del Paese, la pertinente attività investigativa ha consentito di accertare la sussistenza di una significativa sproporzione tra il profilo reddituale e quello patrimoniale del proposto e del suo nucleo familiare.

Alla luce di tali risultanze, in aderenza alle ipotesi investigative delle Fiamme Gialle e della locale D.D.A., la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, ha disposto nei confronti del funzionario in rassegna la misura cautelare del sequestro avente ad oggetto il relativo patrimonio illecitamente accumulato, costituito da 2 terreni, 2 fabbricati, 1 autoveicolo, 3 orologi di pregio e rapporti finanziari.

L’attività di servizio in rassegna testimonia ancora una volta l’elevata attenzione della Guardia di Finanza di Reggio Calabria e della locale Procura della Repubblica, nel contrasto alle infiltrazioni delle consorterie criminali nel settore degli appalti pubblici ed al mercimonio di pubbliche funzioni, a tutela della sana imprenditoria e dei cittadini onesti.

 

 

 

DISCO ROSSO DELLA FINANZA AGLI INVESTIMENTI DELLA “MAFIA IMPRENDITORIALE” IN SICILIA,LOMBARDIA E VENETO-17 SOCIETA’ E 48 IMMOBILI PER UN VALORE DI OLTRE 50 MLN DI EURO

CATANIA,

Duro colpo alle articolazioni mafiose dei Clan Scalisi-Laudani .Nell’ambito di articolate attività di indagine coordinate dalla Procura della Repubblica di Catania – Direzione Distrettuale Antimafia, i Finanzieri del Comando Provinciale della Guardia di finanza di Catania, con la collaborazione e il supporto dello SCICO (Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata), hanno ricostruito gli investimenti degli illeciti proventi del capo del clan SCALISI – articolazione della famiglia mafiosa LAUDANI – in attività imprenditoriali gestite dal nipote nonché da due imprenditori catanesi: questi, a loro volta, utilizzavano diversi prestanome per la costituzione di numerose società.

Il Giudice presso il Tribunale di Catania, su richiesta della Procura Distrettuale, ha condiviso la configurabilità del concorso esterno a carico dei due imprenditori ed emesso ordinanze cautelari personali e reali nei confronti di 26 persone indagate, a vario titolo, per associazione a delinquere di tipo mafioso e trasferimento fraudolento di valori al fine di eludere la normativa antimafia. Nel dettaglio, sono state seguite dai militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Catania ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di 5 indagati e il sequestro preventivo nei confronti di tutti i 26 indagati delle quote societarie e dei compendi aziendali di 17 società aventi sede in Sicilia, Lombardia e Veneto, di 48 beni immobili tra terreni e appartamenti situati tra Catania e Messina, oltre che di conti correnti e disponibilità finanziarie per un valore complessivo di 50 milioni di euro.

Inoltre, nel corso delle attività di perquisizione domiciliare nei confronti degli arrestati sono stati rivenuti e sottoposti a sequestro oltre 1 milione di euro in contanti, orologi, preziosi e auto di lusso, tra cui una Ferrari modello F458 del valore di 200 mila euro, due Porsche e un’Audi Q8.

La complessa attività d’indagine, condotta dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Catania, ha riguardato soggetti appartenenti o contigui al clan SCALISI di Adrano e ha permesso di accertare la forte capacità del gruppo mafioso di inserirsi nel tessuto economico-sociale e di infiltrarsi in strutture produttive attive sull’intero territorio nazionale e con sede nel Nord-Est, dalle quali traeva poi finanziamento. In particolare, l’indagine ha evidenziato come il capo clan, anche dal carcere (ove è sottoposto al regime del “carcere duro”), abbia continuato a rappresentare il punto di riferimento dell’associazione criminale, dirigendo – anche nel corso dei “colloqui” presso l’istituto di reclusione – l’attività della consorteria criminale e ciò grazie soprattutto al nipote, al quale è stato riconosciuto un ruolo di assoluto rilievo nell’ambito del sodalizio quale portavoce dello zio sul territorio e supervisore degli investimenti.

Le investigazioni, condotte dalle unità specializzate del GICO del Nucleo PEF di Catania, hanno poi posto in luce il “concorso esterno” nell’associazione mafiosa di due imprenditori catanesi, i quali hanno sistematicamente operato a favore del capo clan, riuscendo in questo modo:

  • da un lato, a “occultarne” il relativo patrimonio, grazie a plurime intestazioni fittizie di beni e società illecitamente acquisiti nel tempo;dall’altro, a incrementare in maniera costante e considerevole le loro disponibilità economiche e finanziarie, potendo contare sugli ingenti e illeciti apporti di capitale derivanti dalle attività della consorteria criminale e sulla protezione offerta loro dallo stesso clan.

Si è appreso anche che i predetti imprenditori – inizialmente operanti nel settore della logistica e dei trasporti nella zona di Adrano – potendo contare sulla copertura anche finanziaria fornita dall’associazione mafiosa oggetto di indagine hanno progressivamente esteso sull’intero territorio nazionale le loro illecite attività imprenditoriali, gradualmente diversificandole e rilevando anche società operanti nel settore della commercializzazione dei prodotti petroliferi in Veneto e Lombardia.

È emersa altresì la figura di un altro sodale, quale importante riferimento dell’associazione criminale nel territorio di Adrano, Paternò e Biancavilla, attivo in particolar modo nel settore dei trasporti. In esito alla complessa e articolata attività di indagine del Nucleo PEF della Guardia di finanza di Catania e dello SCICO, il Giudice per le indagini preliminari presso il locale Tribunale, su proposta di questo Ufficio, ha quindi disposto misure cautelari personali e reali nei confronti degli appartenenti all’associazione mafiosa.

Disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti di 5 soggetti, sottoposti a indagine a vario titolo per associazione a delinquere di tipo mafioso e trasferimento fraudolento di valori, poiché hanno fittiziamente attribuito la titolarità di altrettante imprese a svariati prestanome, con la duplice finalità di eludere la normativa antimafia e di favorire il clan SCALISI.

È stato inoltre sottoposto a sequestro, nei confronti di 26 indagati, il rilevante patrimonio del clan SCALISI – per un valore allo stato stimato in circa 50 milioni di euro – costituito da:

  • quote societarie e relativi compendi aziendali di 17 società aventi sede in Sicilia (province di Catania e Enna), Lombardia (Varese e Mantova) e Veneto (Verona), attive nel settore della logistica e della commercializzazione del carburante; 48 immobili, di cui 15 fabbricati e 33 appezzamenti di terreni, tutti situati tra la provincia di Catania e Messina.

 

Operazione “Xydi”. Decreto di fermo di indiziato di delitto per 23 indagati

Grande rilievo assume il controllo e lo sfruttamento del lucrosissimo settore commerciale delle transazioni per la vendita di uva e altri prodotti di Agrigento

FIDANZAMENTI COMBINATI IN NOME DEL POTERE – ANCHE QUESTA E' LA 'NDRANGHETA!  – Blog degli Amici di Pino Masciari
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AGRIGENTO
Operazione “Xydi”.    Stamane  i Carabinieri del ROS, con il supporto operativo dei Carabinieri del Comando Provinciale di Agrigento e l’ausilio dei Comandi Provinciali di Trapani, Caltanissetta e Palermo, del XII Reggimento “Sicilia”, dello Squadrone Eliportato Cacciatori “Sicilia” e del 9° Nucleo Elicotteri, hanno dato esecuzione ad un Decreto di Fermo di indiziato di delitto emesso dalla Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, nei confronti di 23 indagati, ritenuti a vario titolo responsabili di associazione per delinquere di tipo mafioso (Cosa nostra e stidda), concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento personale, tentata estorsione ed altri reati aggravati poiché commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso.
Le indagini, avviate nel 2018, si sono sviluppate nella parte centro orientale della provincia di Agrigento ove risulta attivo il mandamento mafioso di Canicattì (AG) che costituisce tuttora l’epicentro del potere mafioso dell’ergastolano campobellese F. G., pure destinatario del provvedimento precautelare in esame in quanto risultato a capo della provincia mafiosa di Agrigento.
Le attività investigative, nel fare luce sugli assetti di cosa nostra agrigentina ed in particolare del suddetto mandamento, hanno consentito di documentare, l’attuale operatività delle sue articolazioni territoriali, rappresentate dalle famiglie di Canicattì, Campobello di Licata, Ravanusa e Licata, nonché individuarne gli esponenti di maggior rilievo. 
Sono emersi, tra gli altri, D. C. C., capo del mandamento, B. G., rappresentante del citato F. e organizzatore del mandamento, nonchè B. L., capo della famiglia di Ravanusa.
In tale cornice, nell’ambito delle dinamiche associative delle articolazioni mafiose oggetto di indagine, ruolo di rilievo ha ricoperto P. A., compagna di B. G., che, in qualità di difensore di numerosi affiliati del Mandamento, tra cui lo stesso F., sfruttando le garanzie del mandato difensivo, ha messo a disposizione degli stessi il proprio studio legale per l’esecuzione di summit mafiosi, ritenendolo luogo non soggetto ad investigazioni. 
Presso lo studio, infatti, si sono svolti incontri che hanno riguardato esponenti mafiosi di primo piano quali B. L. (capo della famiglia mafiosa di Ravanusa), S. G. (capo della famiglia di Favara), L. G. (capo della famiglia mafiosa di Licata), C. S. (uomo d’onore di Villabate, già fedelissimo di B. P.) e C. A. (esponente di vertice della rinata stidda). 
Sul punto gli elementi raccolti hanno altresì permesso di accertare che F. G., sottoposto al regime ex art. 41 bis OP, oltre a riuscire ad interagire con altri uomini d’onore (diversi da quelli con cui svolge i previsti periodi di socialità) a loro volta sottoposti al medesimo regime detentivo, servendosi del menzionato Avv. P. A., ha veicolato e ricevuto informazioni, mantenendo così la direzione operativa della provincia mafiosa di Agrigento.
Inoltre, sono stati ricostruiti i qualificati rapporti tra i rappresentanti del mandamento di Canicattì con esponenti di altre omologhe strutture delle province di Agrigento, Trapani, Catania e Palermo, sintomatici della perdurante unitarietà dell’organizzazione. 
In proposito, particolarmente rilevanti sono i contatti con esponenti della famiglia G. di Cosa nostra newyorkese, interessata ad avviare articolate attività di riciclaggio di denaro con cosa nostra siciliana.
Le investigazioni hanno inoltre messo in luce la rinnovata presenza nel territorio del mandamento di Canicattì della stidda, organizzazione mafiosa ricostituitasi intorno alle figure degli ergastolani semiliberi G. A. (ritenuto responsabile, quale mandante, dell’omicidio del Giudice R. L. avvenuto il 21 settembre 1990) e R. S. G. la quale, persistendo la situazione di pacificazione risalente agli anni ’90, opera in rapporti di sinergia criminale con cosa nostra, sia per la risoluzione di problematiche che per la spartizione delle attività criminali. 
Oltre al generalizzato controllo della criminalità comune, estremamente significative sono le infiltrazioni di Cosa nostra e della stidda nelle attività economiche. 
Al riguardo, grande rilievo assume il controllo e lo sfruttamento del lucrosissimo settore commerciale delle transazioni per la vendita di uva e di altri prodotti ortofrutticoli della provincia di Agrigento che, oltre a garantire rilevantissime entrate nelle casse delle organizzazioni, permetteva loro di consolidare il già rilevante controllo del territorio. 
In tale quadro, è stato pure sventato un progetto omicidiario organizzato dagli esponenti della stidda in danno di un mediatore e un imprenditore che non avevano corrisposto – a titolo estorsivo – alla nominata associazione mafiosa parte dei guadagni realizzati con le loro attività.
Tra le linee d’azione considerate più importanti da cosa nostra vi è quella dell’inabissamento, esigenza particolarmente sentita anche con riguardo alle inchieste giornalistiche, secondo l’esempio di P. B. per il quale rimanere invisibile era una inderogabile regola di vita.
La particolare ampiezza dell’azione investigativa ha cristallizzato, inoltre, la perdurante posizione apicale, nell’ambito di cosa nostra, di M. D. M. che, punto di riferimento decisionale dell’organizzazione, ha continuato a impartire direttive sugli affari illeciti più rilevanti gestiti dal sodalizio nella provincia di Trapani ed in altri luoghi della Sicilia. 
Sono stati colpiti, tra gli altri, M. D. M. e F. G. rispettivamente al vertice della provincia mafiosa di Trapani e della provincia mafiosa di Agrigento, gli esponenti di vertice di diverse articolazioni mafiose di cosa nostra (mandamento di Canicattì e famiglia di Favara) nonché capi, promotori e organizzatori della rinnovata associazione mafiosa stidda. 

Operazione Jungle – 13 misure cautelari per traffico di stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso

 

Dalle prime luci dell’alba – al termine di una complessa attività investigativa nel settore del contrasto al traffico di sostanze stupefacenti coordinata dalla Procura della Repubblica di Bari Direzione Distrettuale Antimafia – oltre 70 militari, con l’ausilio di unità cinofile, del Gruppo Pronto Impiego della Guardia di Finanza di Bari, unitamente della Sezione Aerea di Bari, stanno dando esecuzione in Puglia, Basilicata ed Emilia Romagna, ad un’ordinanza applicativa di misure cautelari personali emessa, dal G.I.P. del locale Tribunale, a carico di 13 soggetti (di cui 10 tradotti in carcere e 3 sottoposti a divieto di dimora nel Comune di Palo del Colle).

Le complesse investigazioni svolte da militari Anti Terrorismo Pronto Impiego, principalmente impegnati in servizi di controllo del territorio e di concorso all’ordine e alla sicurezza pubblica, hanno consentito di acquisire elementi relativi all’operatività nel territorio del Comune di Palo del Colle (BA), di una strutturata associazione a delinquere dedita al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti oltre che all’estorsione e alla detenzione di armi, che si è sempre avvalsa del metodo mafioso nello svolgimento degli affari illeciti.

L’esecuzione dei provvedimenti cautelari costituisce l’epilogo dell’attività di indagine – denominata “JUNGLE” e svolta attraverso l’incrocio dei dati risultanti dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, dai tabulati telefonici, dalle georeferenziazioni satellitari GPS, nonché dall’attività di osservazione, controllo e pedinamento oltre che dai continui riscontri sul campo – che ha permesso di disarticolare l’associazione criminale principalmente dedita al traffico di sostanze stupefacenti di tipo eroina, cocaina, marijuana e hashish, con sede operativa in Palo del Colle (BA), interrompendo così l’ascesa del capo indiscusso della compagine criminale operante in loco sotto l’egida del famigerato clan STRISCIUGLIO, egemone in Bari e provincia.

L’attività investigativa, scaturita dal costante e capillare controllo del territorio, ha consentito di individuare, nel predetto comune, una delle principali piazze di spaccio, in particolare eroina, ormai punto di rifornimento, sdettaglio che all’ingrosso, per acquirenti provenienti da altre province della regione Puglia nonché da regioni confinanti. Plurimi sono stati i riscontri operativi che hanno permesso di sottoporre a sequestro ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti del tipo eroina, cocaina, hashish e marijuana nonché armi, munizionamento di vario calibro e denaro contante. Fondamentale svolta nelle indagini hanno assunto anche le dichiarazioni di uno dei soggetti indagati che ha deciso di collaborare con l’Autorità Giudiziaria, confermando il quadro probatorio delineato e contribuendo a decifrare il linguaggio utilizzato dagli associati nelle comunicazioni “infra gruppo”, fatto di codici e termini allusivi.